Il ritratto antica forma, la più antica forma di visione che l’arte ci rimanda. I soggetti più presenti sulle tele di musei e collezioni, dopo le immagini sacre, sono quelle di re, regine, duchi e contesse. Avviene anche in fotografia – subito dopo la dichiarata invenzione del 1839 – a metà dell’800 si diffonde la moda della “Carte de visite” per ottenere finalmente, senza le spese eccessive di un pittore, la propria immagine da poter tenere, da poter esibire.
Si tratta però, di intendersi su cosa sia il ritratto fotografico. Merita la premessa che la fotografia, proprio per la sua tecnologia, non richiede come in pittura la staticità dei soggetti. Anzi la fotografia rovescia il senso tradizionale del ritratto pittorico. A questo punto si può dire che il ritratto è sicuramente quello della persona ma colta in momenti, situazioni, istanti diversi. Poco importa se il soggetto si è messo volontariamente in posa davanti al fotografo o è stato colto durante un reportage o ancora è stato recuperato durante le scene di un film. Quindi normale che in questi ultimi giorni siano apparse milioni di foto della regina Elisabetta II, del re Giorgio III e della sua corte.
Guardando sui social sono stata catturata dalle immagini di Derek Hudson, un grande fotografo di Life che ritengo uno dei più incisivi e straordinari fotografi di ritratto.
Perché ciò che importa è ciò che riusciamo a cogliere dell’essenza del soggetto proprio grazie all’ espressione, all’intensità del sentimento, dell’emozione che il fotografo è riuscito a fermare con un clic. Il ritratto diventa simbolo vivo di una storia, di una tragedia, di una vita semplice o difficile, di una condizione psicologica o di un attimo in una vita vissuta nella normalità.
E ancora quanto quel ritratto ci consente di leggere la silenziosa voce del soggetto che in quell’attimo possiamo sentire vicino per una strana familiarità oppure distante come un mito che vorremmo imitare? L’apparente verità di ciò che vediamo è fascinosamente filtrata dalla nostra verità agganciata alla rete spesso sottile delle nostre convinzioni, convenzioni, semplificate catalogazioni.
Il guaio è che sia in pittura che in fotografia il nodo che si pone non appartiene al semplice dominio della fisica: assomiglia o no al soggetto vivo, rientra, semmai e a vigoroso titolo, in quello della metafisica. Ovvero nel ritratto fotografico si dovrebbe realizzare una sintesi della vita, della storia personale, dell’opera degli uomini che conosciamo: l’attendibilità dunque che cerchiamo e che separa la banalità tecnica dal capolavoro è restituire il senso di quella vita e non semplicemente indurci a esclamare: è davvero somigliante, lo ricordo proprio così…. Per dirla con una parola aristotelica si deve realizzare, fissandola in saecola saeculorum, la sua entelechia. In modo semplice: in ogni uomo che ha un destino, morire tragicamente, scrivere un libro fondamentale, innovare la scienza dell’uomo, quel destino è presente in ogni istante, anche prima che si compia. In ogni punto della sua vita sarà inesorabilmente quello. Come ben aveva compreso Sant ‘Agostino: in ogni uomo c’è contemporaneamente passato presente e futuro…
Ecco: la fotografia dovrà fissarne quell ’attimo eterno, rendendolo perennemente riconoscibile. Ecco allora che alcune foto della Regina Elisabetta II e del re Giorgio III scattate anni prima da Derek Hudson, per me riuscitissime, contengono la entelechia di quella conclusione, la rendono leggibile e presente. Come dice Aristotele ogni entelechia è un frammento di eternità. In questo senso la superstizione che il ritratto fotografico è un consegnarsi in mano di altri, al destino alla morte, a Dio (e all’ignoto di se stesso) ha una sua piena, inquietante giustificazione. I ritratti di Derek Hudson non sono mai scontati poiché scruta in un’assenza, in un attimo di abbandono, in una distanza dal mondo. La Regina Elisabetta II e il Re Carlo III sembrano essere quell’ attimo di sospensione dal mondo che i protagonisti delle immagini inseguono alla ricerca della loro anima, della loro autenticità.
Tiziana Bonomo
Biografia
[justify]Influenzato sin dall’adolescenza da fotografi britannici del calibro di Don Mccullin, a 17 anni Derek Hudson si avvicina all’arte fotografica da autodidatta. Inizia la sua carriera di fotografo in un giornale locale e, nel giro di 18 mesi, viene premiato come miglior fotografo dell'anno nel Regno Unito. Incoraggiato da questo riconoscimento, si cimenta come freelance per i periodici della leggendaria Fleet Street di Londra, dove incontra il suo mentore, che lo incoraggia a tentare la fortuna a New York. Arrivato a Manhattan proprio la sera dei festeggiamenti per il nuovo lancio della rivista LIFE, riesce a intrufolarsi alla festa, stringendo i primi contatti con alcuni dei migliori photo-editor di New York. Dopo dodici anni a New York, da dove copre con i suoi reportage guerre civili in America Centrale, due elezioni presidenziali e un tour statunitense con i Rolling Stones, torna in Inghilterra per collaborare con l’agenzia francese Sygma. Si trasferisce quindi a Parigi nel 1993, dove diventa il principale fotografo europeo per la rivista LIFE, oltre a collaborare con Le Monde e il New York Times Magazine. Dal 1996 si dedica principalmente alla famiglia, pur continuando a realizzare reportage sui più importanti eventi di cronaca internazionale. Nel 2001 è in Afghanistan, dove un attacco al contingente con cui collabora mette seriamente a rischio la sua vita. Per il bene della famiglia, decide così di non accettare più incarichi rischiosi e collaborando con alcune riviste di viaggi, in particolare French Geo. Nel 2012, durante un reportage in Sud Africa, un gravissimo incidente automobilistico lo costringe per anni su una sedia a rotelle, mentre “combatte” con la riabilitazione. Si rivolge quindi al settore pubblicitario e nel contempo cura il suo vasto archivio, che copre oltre cinquant’anni di fotogiornalismo. Attualmente vive e lavora a Berlino.
Da Instagram dalla pagina di https://www.instagram.com/derekhudsonphoto/